Ci conduce nel suo piccolo Museo dell’Olio, una grotta nel tufo in cui sono esposti gli antichi macchinari del frantoio, quelli che funzionavano “quando la corrente elettrica ancora non c’era”, dice, che appartengono alla sua famiglia da generazioni e che lui ha conservato gelosamente: ribadisce più volte che ci tiene a quelle cose, che ha fatto di tutto per conservarle e che non si fida neanche a farsele restaurare da altri per timore che gliele rovinino.
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I lavoratori del frantoio tanti tanti anni fa |
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Mario nel suo Museo dell’Olio |
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Una delle prime macine |
Ad un certo punto avverte un rumore che non lo convince e apre una porta per controllare: è la stufa a sansa che serve a riscaldare il suo appartamento al piano di sopra. Qui nel frantoio, dunque, non si butta via nulla, neanche gli scarti di lavorazione, che vengono usati come carburante da riscaldamento. Nei secoli scorsi il frantoio era anche la fabbrica dei vari macchinari per la produzione dell’olio, per la filatura della canapa e della fibra di cocco. Ed è proprio per la lavorazione della fibra di cocco che i Matteucci si distinsero e diventarono famosi in tutto il mondo. La facevano arrivare dall’India e con essa producevano corde, ma soprattutto fiscoli, una sorta di sacche che venivano riempite di pasta di olive, poi impilate nel torchio e infine pressate. Ne usciva un succo che poi si lasciava decantare per separare l’acqua dall’olio, che veniva infine raccolto in appositi contenitori. Oggi i macchinari moderni prediligono l’uso di fiscoli in polipropilene, ma Nonno Mario continua a lavorare la fibra di cocco e ci mostra orgoglioso le sue creazioni: ha trasformato i fiscoli in cestini e borse da donna, ma con la stessa tecnica di lavorazione realizza anche tappeti e articoli decorativi, “l’oggettistica” dice “l’ho inventata io”.
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Il torchio per la spremitura delle olive con la pila di fiscoli. Alle pareti sono appesi quelli più antichi |
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Tornio per la fabbricazione di utensili destinati alla lavorazione della fibra vegetale. |
Passiamo di grotta in grotta, carichi di storie, ci mostra le foto degli antenati e della sua gioventù. Ci racconta di quando aveva sei anni e il padre gli diceva di sbrigarsi a fare i compiti perché doveva scendere al frantoio a dare una mano. C’era da lavorare, di lì a poco la guerra li colpì e allora non ci fu più spazio per i compiti: alla fine del conflitto si dovette ricostruire tutto, la scuola fu abbandonata perché bisognava rimettere in piedi l’attività di famiglia. Ed è proprio durante la guerra che i Matteucci avevano potuto sfruttare a proprio vantaggio le grotte che si aprivano nella loro proprietà: diventarono rifugi antieaerei collegati con quel reticolo di cunicoli che caratterizzano il sottosuolo di Viterbo e che all’occasione fungevano da preziose vie di fuga. In questa sorta di bunker conserva ancora i cimeli di guerra: maschere antigas, taniche di carburante americane e tedesche, elmetti, bossoli di proiettili di vario calibro.
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L’ingresso al rifugio antiaereo |
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Cimeli di guerra nel “bunker” della famiglia Matteucci |
Ci mostra anche un macchinario, sempre di quelli “senza corrente” per intrecciare le corde: ancora attaccata ce n’è una, spessissima, che fu realizzata da lui per una scena dell’Armata Brancaleone di Monicelli. Ci parla della filatura della canapa che proprio lì, nella valle del Paradosso, si coltivava già dal medioevo e ci fa vedere un pezzo di un antico lenzuolo tessuto con fili sottilissimi: lamenta il fatto che non sia riuscito a salvare il telaio e promette che ne farà realizzare uno simile a quello che aveva. Passa infine alla prova pratica: con l’aiuto di Barbara, si lega della canapa grezza attorno alla vita e fa una dimostrazione di filatura per mezzo di un apposito macchinario a manovella, che lui ha fatto riprodurre imitando fedelmente quello più antico esposto nel suo museo.
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La corda realizzata per una scena dell’Armata Brancaleone |
Rimaniamo estasiati non solo dall’animo di questo giovane ottantenne che va a prendere, correndo (nel senso che si è messo davvero a correre, con un’agilità che non ho neanch’io che di anni ne conto meno della metà dei suoi), l’ultima corda realizzata, ma anche dalla squisitezza dell’olio da lui prodotto, che ci fa degustare su un letto di pane abbrustolito. Nonno Mario mi ha trasmesso un grande entusiasmo, ma allo stesso tempo mi fa pensare a tutto quello che stiamo perdendo: le tradizioni, per esempio. È l’ultimo detentore dell’arte dell’intreccio dei fiscoli, il suo sogno è creare una scuola per le generazioni future. E poi quella luce negli occhi…guarda sempre avanti Nonno Mario, oltre le difficoltà e le tragedie più grandi come quelle della guerra. Una scuola di forza, ecco cosa ci vorrebbe.
Per visitare il frantoio potete contattare direttamente Mario Matteucci al numero 3296291902: vi preparerà anche un’ottima bruschetta di pane caldo e olio extravergine d’oliva del frantoio “Il Paradosso”.